B U R E A U   O F   P U B L I C   S E C R E T S


 

La realizzazione e la soppressione
della religione


Quanto a stronzate, in quantità e in varietà, nessun’altra attività umana supera la religione. Se, inoltre, si tiene conto della sua complicità con la dominazione di classe nel corso della storia, non ci si stupirà che si sia attirata il disprezzo e l’odio di un numero sempre crescente di persone, in particolare dei rivoluzionari.

I situazionisti hanno ripreso la critica radicale della religione, abbandonata dalla sinistra, e l’hanno estesa alle sue forme moderne e secolarizzate — lo spettacolo, la lealtà sacrificale verso i capi o le ideologie, ecc. Ma il loro attaccamento ad una posizione unilaterale e non dialettica verso la religione si è riflesso su alcuni difetti del movimento situazionista, rafforzandoli. Sviluppandosi a partire dalla prospettiva secondo la quale, per essere superata, l’arte deve essere ad un tempo realizzata e soppressa, la teoria situazionista non ha saputo vedere che una posizione simile doveva essere adottata nei riguardi della religione.

La religione è l’espressione alienata del qualitativo, “la realizzazione fantastica dell’uomo”. Il movimento rivoluzionario deve opporsi alla religione, ma non per preferirle un amoralismo volgare o un buon senso filisteo. Deve prendere posizione dall’altro lato della religione. Non essere da meno di essa, ma di più.

Quando i situazionisti trattano la religione, è generalmente soltanto nei suoi aspetti più superficiali e più spettacolari, confutati con disprezzo da coloro che non sono capaci di confutare nient’altro. Eccezionalmente, riescono ad ammettere vagamente Jakob Boehme o la Fraternità del Libero Spirito nel loro pantheon, perché l’I.S. li ha citati in modo favorevole; ma mai nulla che li toccherebbe intimamente. Questioni che meriterebbero un esame ed un dibattito vengono messe da parte perché sono state monopolizzate dalla religione o perché sono state formulate in termini a connotazione religiosa. Alcuni possono presentire l’insufficienza di un tale rifiuto, ma non sanno come si potrebbe agire diversamente su un terreno talmente tabù, e dunque anche loro tacciono o ricorrono a banalità. Per essere gente che vuole “superare tutte le acquisizioni della cultura” e realizzare “l’uomo totale”, i situazionisti spesso ignorano in modo sorprendente le caratteristiche più elementari della religione.

Non si tratta di aggiungere una dose di religione per completare la nostra prospettiva, per creare un situazionismo “dal volto umano”. Non si umanizza uno strumento, un metodo critico. (La nozione di “umanizzare il marxismo” rivela semplicemente la natura ideologica del suddetto marxismo). Si tratta di esaminare gli angoli ciechi e le rigidità dogmatiche che si sono sviluppati a partire da un attacco critico contro la religione, attacco che è stato in gran parte legittimo. È proprio quando una posizione teorica ha prevalso che diventa ad un tempo possibile e necessario criticarla con più rigore. La formula approssimativa che aveva valore di provocazione in un contesto anteriore diventa la base di nuove ideologie. Un progresso qualitativo si accompagna spesso ad un ritardo apparentemente paradossale.

Non basta spiegare la religione con il suo ruolo sociale o il suo sviluppo nella storia. Occorre scoprire il contenuto che si esprime nelle forme religiose. Poiché i rivoluzionari non si sono realmente confrontati con la religione questa non cessa di assillarli. Poiché la sua critica è rimasta astratta, superficiale, volgarmente materialista la religione rinasce continuamente sotto nuove forme, anche fra quelli che prima si opponevano per tutte le buone ragioni “materialiste”. I situazionisti possono osservare con compiacenza che “tutte le chiese si decompongono” e non notare che si assiste anche, e questo precisamente nei paesi industriali più progrediti, alla proliferazione di migliaia di religioni e di neo-religioni. Qualsiasi nuova manifestazione religiosa è un segno del fallimento della teoria radicale nell’esprimere il significato autentico e nascosto che si ricerca attraverso queste forme.

La religione comprende molti fenomeni dissimili e contradittori. Messi da parte i suoi aspetti puramente apologetici, offre rituali esteticamente attraenti; sfide morali; forme di contemplazione “per ritrovarsi”; principi per organizzare la propria vita; una comunione che si trova di rado nel mondo profano; ecc. Facendo saltare questo conglomerato, la rivoluzione borghese non ha distrutto la religione, ma è servita, fino ad un certo punto, a separarne i diversi aspetti. Trovandosi indipendenti, alcuni elementi della religione che, all’origine, erano pratici sono costretti a ridiventarlo, o a scomparire.

Le vie e le tecniche neo-religiose sono innumerevoli: modifiche o combinazioni di religioni tradizionali; terapie psicologiche o psicofisiche; tirocini di auto-perfezionamento; tecniche di meditazione; psichedelia; attività adottate come “modi di vita”; esperienze comunitarie... Una volta demistificate, razionalizzate, messe sul mercato, queste pratiche, in una certa misura, sono adottate per il loro valore d’uso, piuttosto che imposte da un sistema istituzionalizzato che le monopolizza. Certamente, gli usi che se ne fanno sono molto diversi, spesso banali o per un semplice scopo d’evasione; e molte delle vecchie superstizioni e mistificazioni persistono anche senza la ragion d’essere sociale che le rafforzava in principio. Ma questa sperimentazione popolare non è soltanto un riflesso della decomposizione sociale, è anche un importante fattore positivo nel movimento rivoluzionario attuale, l’espressione largamente diffusa di gente che prova a riprendere possesso della propria vita. La teoria situazionista ha oscillato tra due visioni: quella di gente completamente alienata che un bel giorno scoppia, liberando tutta la sua rabbia e la sua creatività respinte; e quella di microcosietà di rivoluzionari che vivono già secondo le esigenze più radicali. Non è riuscita a trattare le esperienze più ambigue che oscillano tra il recupero e la radicalità, dove le contraddizioni si esprimono e si sviluppano; le abbandona al recupero che, apparentemente conferma le sue posizioni. Non si tratta di essere più tolleranti verso queste esperienze, ma di esaminarle e criticarle più a fondo, invece di respingerle con disprezzo.

Nella misura in cui sviluppiamo una critica più radicale, più profonda della religione, si possono prevedere degli interventi sul terreno religioso simili a quelli che faceva l’I.S. ai suoi inizi sul terreno artistico ed intellettuale; attaccare, ad esempio, una neo-religione non soltanto nella prospettiva “materialista” classica, ma perché non va abbastanza lontano secondo i suoi stessi termini, perché non è, per così dire, abbastanza “religiosa”.

Si dimentica spesso che la teoria rivoluzionaria non è fondata su preferenze o principi, ma sull’esperienza del movimento rivoluzionario. La base della critica del “sacrificio”, ad esempio, non consiste nel fatto che uno debba essere egoista per principio — che è una brutta cosa essere altruista, ecc. — ma viene dalla constatazione che il sacrificio e l’ideologia sacrificale tendono ad essere fattori importanti nel mantenimento della gerarchia e dello sfruttamento. È soltanto una felice coincidenza storica se l’attività rivoluzionaria attuale ha tendenza ad essere interessante e piacevole, e se farsi strumento della manipolazione politica non è soltanto sgradevole, ma anche non strategico. I situazionisti avevano ragione a mostrare e ad affermare l’aspetto ludico delle lotte radicali o l’aspetto radicale di atti ludici in apparenza poco importanti (il vandalismo, ecc.). Ma la coincidenza di tali constatazioni ha condotto molta gente alla seducente conclusione, se non del tutto logica, che l’attività rivoluzionaria è per definizione piacevole; o anche che il piacere è per definizione rivoluzionario. Il problema è piuttosto di sapere come affrontare le situazioni in cui il piacere immediato non coincide necessariamente con le necessità rivoluzionarie; cercare le forme per avvicinare entrambi i lati (il deturnamento affettivo), ma senza dissimulare le contraddizioni quando questo ravvicinamento non è possibile.

Gli stessi situazionisti che mostrano la stupidità del sinistrismo che riduce le lotte dei lavoratori a questioni puramente economiche, riducono a loro volta la rivoluzione a questioni puramente “egoiste” quando insistono sul fatto che la gente lotta — o almeno dovrebbe lottare — soltanto “per sé stessa”, “per il piacere”, ecc. Le loro esortazioni “a rifiutare il sacrificio” si sostituiscono a qualsiasi analisi, o conducono ad analisi false. Denunciare il maoismo, per esempio, semplicemente perché si basa sul “sacrificio”, non risponde ai sentimenti comunitari sani e generosi il cui recupero è all’origine dell’attrattiva del maoismo. Ciò che è controrivoluzionario nel maoismo, non è il sacrificio in sé stesso ma il tipo di sacrificio e l’uso che ne è fatto. La gente non ha soltanto accettato, quando era necessario, di subire la povertà, la prigione e di altre sofferenze per la revoluzione, spesso l’hanno fatto con gioia, considerando il comfort materiale come relativamente secondario, trovando una soddisfazione più profonda nella coscienza dell’efficacia e della bellezza dei loro atti. Ci sono vittorie che non sono visibili per tutti, dei momenti in cui si può vedere che si è “già vinta” una battaglia, anche se può sembrare superficialmente che niente sia cambiato.

È necessario distinguere tra la devozione di principio ad una causa che può comportare qualche sacrificio dei più stretti interessi egoistici, e la degradazione dinanzi ad una causa che esige il sacrificio del “meglio di sé” — la propria integrità, la propria onestà, la propria magnanimità. Mettendo esclusivamente l’accento sui piaceri immediati che si possono trovare nell’attività rivoluzionaria (a causa di un entusiasmo ingenuo o allo scopo di seduzione politica o sessuale), i situazionisti si sono esposti alle obiezioni di coloro che la respingono su questa base, delusi nelle loro aspettative di divertimento.

Si comprende perché l’anti-sacrificio sia stato un pilastro dell’ideologia situazionista risparmiato dalla critica. In primo luogo, fornisce una difesa eccellente contro il fatto di dover rendere conto a sé o agli altri: si possono giustificare molte inadempiemenze dicendo semplicemente che non si provava un’attrazione appassionata a fare questo o quello. In secondo luogo, l’individuo che non è rivoluzionario che per il suo piacere sarà, si può supporlo, indifferente oppure controrivoluzionario quando ciò gli converrà meglio. Per evitare che si noti questo corollario imbarazzante, sarà dunque costretto a postulare che l’attività rivoluzionaria è sempre automaticamente piacevole.

Il successo stesso dell’I.S. ha contribuito alla giustificazione evidente di una posa anacronistica che proviene dalle circostanze accidentali delle sue origini (nell’avanguardia culturale francese, ecc.) ed anche forse dalla personalità di alcuni dei suoi principali animatori. L’aggressività del tono situazionista riflette la volontà di ridefinire la rivoluzione nell’individuo reale, impegnato in un progetto che vuole abolire tutto ciò che esiste al di fuori di sé. A differenza del militante, il situazionista è naturalmente pronto a reagire contro la manipolazione. Benché tale atteggiamento si opponga a quello elitario, può facilmente divenire tale in relazione a quelli che non possiedono quest’autonomia o questo rispetto di sé. Avendo provato l’emozione di prendere possesso della propria storia (o almeno identificandosi con quelli che l’hanno fatto), arriva a provare impazienza e disprezzo per la docilità dominante. Da questa sensazione perfettamente comprensibile ad una posa neoaristocratica, c’è soltanto un passo. Questa posa non è sempre il segno di proverbiali “aspirazioni gerarchiche”, piuttosto è che, frustrato dalla difficoltà di intervenire sensibilmente nella società dominante, il situazionista cerca una compensazione cercando di intervenire sensibilmente almeno nel milieu rivoluzionario, di esservi riconosciuto come avente ragione, come chi ha compiuto delle azioni radicali valide. Il suo egoismo si converte in egotismo. Comincia a credere di meritare un rispetto inusuale ad essere così insolitamente antigerarchico. Difende con arroganza il suo “onore” o la sua “dignità” quando qualcuno ha la sfrontatezza di criticarlo, e trova nell’I.S. e nei suoi precursori riconosciuti uno stile che va d’accordo con questo nuovo modo di vedersi.

Un’insoddisfazione intuitiva, causata da questo stile egotista, è all’origine di una gran parte delle discussioni svolte talvolta erroneamente in termini di “femminilità” e di “mascolinità”. Non c’è nulla intrinsecamente di “maschile”, per esempio, nel fatto di scrivere; le donne dovranno apprendere come farlo se non vogliono restare impotenti. Ciò che non devono apprendere, è l’assurda posa neoaristocratica che ha caratterizzato l’espressione situazionista prevalentemente maschile.

Alcuni situazionisti non hanno avuto alcuna inclinazione naturale particolare per questa posa. Ma è stato difficile isolarla e dunque evitarla, poiché le accuse “d’arroganza”, “d’elitarismo”, ecc., sono dirette spesso a torto proprio sugli aspetti più incisivi della pratica situazionista. È difficile non sentirsi superiore quando ricevi questa o quella pseudo-critica che hai già ascoltato e respinto cento volte. Inoltre, la falsa modestia può essere ingannevole. Ci sono cose che non si può lasciar passare. Benché un rivoluzionario non debba pensare che sia (lui o il suo gruppo) essenziale al movimento, né quindi che debba essere difeso con tutti i mezzi, deve difendere le sue azioni nella misura in cui crede che riflettano aspetti importanti di questo movimento. Non si tratta di conservare segretamente la modestia e altre virtù che Dio riconoscerà e ricompenserà alla fine, ma di partecipare ad un movimento mondiale la cui essenza stessa è la comunicazione.

La scena situazionista, fornendo un terreno favorevole alla vanità ed agli intrighi di sette, ha attirato gente che non ha molto a vedere con il progetto rivoluzionario; individui che, in altre circostanze, sarebbe stata bellimbusti, dandies, intriganti, dilettanti, cortigiani, parassiti. È vero che il movimento situazionista ha reagito contro molti di questi individui con un vigore che era forse inaspettato, e che ha scoraggiato molti altri dal pensare di potersi pavoneggiare impunemente. Ma spesso non a causa del loro ruolo pretenzioso, ma perché non potevano mantenere questo ruolo in modo abbastanza credibile. Reciprocamente, la scena situazionista è apparsa ripugnante ad altri individui seri sotto diversi aspetti, che consideravano quest’egoismo pretenzioso come un anacronismo molto distante da qualsiasi rivoluzione alla quale avrebbero potuto interessarsi. Nel vedere questa pretesa apparentemente legata alla radicalità incisiva dei situazionisti, molta gente li ha respinti, in modo semplicistico, tutti e due in blocco, per impegnarsi in altre vie che, sebbene più limitate, evitassero almeno questa posa ripugnante. Il movimento che contava sull’attrazione radicale dell’attività anti-ruolo ed anti-sacrificale ha finito per rifiutare gente che non aveva alcun desiderio di sacrificarsi al ruolo situazionista reazionario.

Il situazionista egoista ha una concezione abbastanza filistea della liberazione umana. Il suo egoismo è soltanto il rovescio dell’umiliazione di sé. Raccomanda il “gioco” in un senso puerile, come se la semplice rottura delle costrizioni fosse automaticamente produttrice di piacere. Evocando il bambino, simpatizza non soltanto con la sua disposizione alla ribellione, ma anche con la sua impazienza e la sua irresponsabilità. La sua critica “dell’amore romantico” non viene soltanto dalla percezione delle illusioni e dalla possessività nevrotica che vi si trova, ma anche da una semplice ignoranza dell’amore e delle proprie possibilità. Non è tanto la comunità umana alienata che lo molesta quanto ciò che gli impedisce di parteciparvi. Quello che sogna realmente, sotto lo sproloquio situazionista, è una società spettacolare cibernetica che dia soddisfazione ai suoi capricci nelle forme più svariate e più sofisticate. Nella sua insistenza forsennata sul “piacere senza limiti”, sulla soddisfazione di una “moltiplicazione infinita di desideri”, resta un consumatore, e dei più frequenti. Se non ama la “passività”, non è tanto perché il fatto di esservi costretto frena i suoi slanci creatori quanto perché ha una necessità frenetica di attività e perché non sa che cosa fare se non è circondato da molte distrazioni. Della contemplazione come momento dell’attività, o della solitudine come momento del dialogo, non conosce nulla. Benché abbia sempre “l’autonomia” alla bocca, gli manca il coraggio di agire senza preoccuparsi di ciò che gli altri penseranno di lui. Non è la sua vita che prende seriamente, è il suo io.

La teoria critica non presenta una verità “oggettiva” immutabile. È un attacco, una formulazione che è stata astratta dalla realtà, semplificata e spinta all’estremo. Il principio è: “se ti va, prendilo”. La gente si vede costretta a chiedersi in quale misura la critica suoni vera, e ciò che ne farà. Coloro che vogliono fuggire il problema si lagneranno della sua ingiusta unilateralità, e perché non presenta il quadro completo. Reciprocamente, il rivoluzionario che ignora la dialettica e che vuole affermare il suo estremismo, approverà la critica (finché non è diretta contro lui) come una valutazione oggettiva ed equilibrata.

Molte delle stravaganze teoriche rivoluzionarie vengono dal fatto che, in un ambiente in cui la “radicalità” è alla base del prestigio, si ha interesse a fare dichiarazioni sempre più estremiste e ad evitare tutto ciò che potrebbe essere preso come testimonianza delll’indebolimento dell’intransigenza verso ciò che è ufficialmente cattivo. Così i situazionisti vedono abbastanza di buon occhio le aspirazioni ludiche o erotiche (“è soltanto necessario che vadano alla fine delle loro implicazioni più radicali”, ecc.) pur rifiutando con insulti le aspirazioni morali, benché queste non siano più ambigue di quelle.

Come reazione esagerata alla complicità generale della morale con l’ordine dominante, i situazionisti si identificano spesso con l’immagine che di loro si fanno i loro nemici, e ostentano la loro “immoralità” o “criminalità”. Tale identificazione non è soltanto puerile, non ha praticamente alcun significato al giorno d’oggi in cui un libertinaggio irresponsabile è uno dei modi di vita più largamente accettati ed esaltati (benché la realtà resti di solito ben inferiore all’immagine). È la borghesia che fu denunciata nel Manifesto Comunista per non “avere lasciato sussistere altro legame, tra l’uomo e l’uomo, che il freddo interesse”. Se dobbiamo servirci delle opere di un Sade — vivo esempio dell’alienazione umana — o di un Machiavelli, non è come manuali per condurre le nostre relazioni, ma come espressioni insolitamente candide della società borghese.

L’ideologia egoista antimoralista ha senza alcun dubbio contribuito a tutte queste rotture inutilmente acrimoniose ed in mala fede che ha conosciuto il milieu situazionista. Certo, i situazionisti sono spesso persone sicuramente simpatiche; ma quasi a dispetto di tutto il loro ambiente ideologico. Ho visto situazionisti sentirsi impacciati e quasi scusarsi di aver compiuto una buona azione (“non era un sacrificio...”). Manca una teoria per tutta la bontà spontanea che possono avere. Il vocabolario etico di base si trova rovesciato, confuso e dimenticato.

Il fatto che si possa appena usare una parola come “bontà” senza apparire démodé dà un’idea dell’alienazione questa società e dei suoi oppositori. I concetti delle varie “virtù” sono troppo ambigui per essere usati senza essere stati criticati e precisati, ma i loro contrari non lo sono di meno. I concetti etici non devono essere lasciati al nemico senza lotta; devono essere contestati.

Un fattore importante che rende le persone insoddisfatte della propria vita, è la loro povertà morale. Da ogni parte, li si incoraggia ad essere piccoli, meschinii, vendicativi, rancorosi, codardi, avidi, gelosi, disonesti, avari, ecc. Si potrebbe dire che la pressione del sistema toglie loro una buona parte del biasimo per queste colpe; ma ciò non rende meno sgradevole il fatto di averle. Un fattore importante nell’estensione dei movimenti religiosi è che rispondono a questa preoccupazione morale, che ispira alla gente una certa pratica etica che dà loro la pace di una buona coscienza, la soddisfazione di dire ciò che pensano e di agire di conseguenza (unità del pensiero e della pratica per cui sono chiamati “fanatici”). Il movimento rivoluzionario, anch’esso, dovrebbe poter rispondere a questa preoccupazione morale, non offrendo un insieme rassicurante, stabilito, di norme di condotta, ma mostrando che il progetto rivoluzionario è il focolare attuale di ciò che ha del senso, il terreno di espressione più coerente della compassione; un terreno dove gli individui devono avere il coraggio di fare le migliori scelte che possono e seguirle, senza ignorare le conseguenze negative ma evitando di nutrire un inutile senso di colpa.

L’atto compassionevole non è rivoluzionario in sé, ma è un superamento momentaneo delle relazioni sociali mercantili. Non è lo scopo, ma è della stessa natura dello scopo. Deve riconoscere i suoi limiti. Quando diviene soddisfatto di sé, ha perso la sua compassione.

A che pro le evocazioni liriche di future rivalse sui burocrati, sui capitalisti, sui poliziotti, sui sacerdoti, sui sociologi, ecc.? Servono a compensare la mancanza di sostanza di un testo e non riflettono di solito neppure i veri sentimenti del loro autore. È una vecchia banalità di strategia dire che se il nemico sa che in ogni modo sarà ucciso, combatterà fino alla fine piuttosto che arrendersi. Certamente, non si tratta di essere non violento, non più che di essere violento, per principio. Coloro che difendono violentemente questo sistema attirano la violenza su sé stessi. È del resto notevole che le rivoluzioni proletarie sono di solito molto magnanime. La vendetta si limita in generale ad alcuni attacchi spontanei contro i torturatori, la polizia o i membri della gerarchia evidentemente responsabili di atti crudeli, e si placa rapidamente. Giustificare alcuni “eccessi” popolari è una cosa; richiederli come tattiche essenziali è un’altra. Il movimento rivoluzionario non ha alcun interesse a ricorrere alla vendetta; ma neanche ad impedirla.

È ben noto che il Taoismo ed lo Zen hanno ispirato numerosi aspetti delle arti marziali orientali: superamento della coscienza dell’ego, in modo da evitare l’ansietà che interferisce con l’azione lucida; non resistenza, in modo da volgere la forza dell’avversario contro di lui invece di affrontarlo direttamente; concentrazione rilassata, in modo da non sprecare la propria energia ma far convergere tutte le forze in un punto al momento dell’impatto. Ci si può probabilmente servire dell’esperienza religiosa, in un modo analogo, per arricchire tatticamente quest’arte marziale suprema che è la teoria-pratica rivoluzionaria moderna. Tuttavia, la rivoluzione proletaria ha poco in comune con la guerra classica, trattandosi meno di due forze similari che si affrontano direttamente, che di una maggioranza schiacciante che sviluppa la coscienza di ciò che potrebbe essere in qualsiasi momento. Nei paesi più sviluppati, il successo di un movimento è maggiormente dipeso, in generale, dalla sua radicalità, e dunque dalla sua capacità di contagio, che dal numero di armi di cui poteva disporre. (Se il movimento è sufficientemente diffuso, l’esercito passerà dalla sua parte, ecc.; altrimenti, le armi da sole non basteranno, se non per dar vita a un colpo di Stato minoritario.)

Si devono riesaminare le esperienze dei movimenti radicali non violenti, religiosi o umanisti. I loro difetti sono numerosi ed evidenti. La loro affermazione astratta di “umanità” è un’affermazione dell’umanità alienata. La loro fede astratta nella buona volontà dell’uomo li conduce a tentare di influenzare moralmente i dirigenti, ed incoraggiare un’ “intesa” reciproca piuttosto che cercare una comprensione radicale. Il loro ricorso a leggi morali trascendenti rafforza la capacità del sistema di fare la stessa cosa. Le loro vittorie ottenute manovrando l’economia come un’arma sono allo stesso tempo vittorie dell’economia. Le loro lotte non violente si basano ancora sulla minaccia della forza, evitano solo di esserne direttamente gli agenti, lasciando questa cura “all’opinione pubblica” e così, in ultima analisi, generalmente allo Stato. I loro atti esemplari diventano spesso dei semplici gesti simbolici, che permettono a tutte le parti di continuare come prima, con la differenza che le tensioni si sono ridotte, che la coscienza si è ridotta “manifestandosi”, “avendo mantenuto fedo ai propri principi”. Identificandosi ad un Gandhi o a un Martin Luther King, lo spettatore si dà una ragione per disprezzare coloro che attaccano l’alienazione in modo meno magnanimo; e non per fare nulla lui stesso, essendo la situazione troppo “complessa” poiché si trovano persone ben intenzionate da entrambi i lati. Questi difetti e altri sono stati rivelati teoricamente e praticamente da tempo. Non è più questione di moderare la sete di potere dei dirigenti, la loro crudeltà o la loro corruzione con rimproveri etici, ma di sopprimere il sistema nel quale tali “abusi” possono esistere.

Tuttavia, questi movimenti hanno a volte ottenuto dei successi notevoli. A partire da alcuni interventi esemplari, si sono estesi come un incendio ed hanno profondamente screditato il sistema e l’ideologia dominanti. Nei loro migliori momenti hanno usato — e spesso inventato — delle tattiche molto radicali, contando sulla propagazione contagiosa della verità, del qualitativo, come arma fondamentale. La loro pratica comunitaria fa vergognare altri ambienti radicali, e sono stati spesso più espliciti sui loro obiettivi e sulle difficoltà per raggiungerli di molti movimenti più “avanzati”. I situazionisti hanno adottato un’ottica spettacolare della storia rivoluzionaria fissandosi sui suoi momenti più visibili, più diretti e più “avanzati”. Questi momenti spesso devono gran parte della loro forza viva alla lunga influenza preparatoria di correnti più discrete, più sottili. Erano spesso “avanzati” semplicemente perché circostanze esterne accidentali li hanno spinti a forme ed atti radicali. Sono spesso falliti perché non sapevano molto bene ciò che facevano né ciò che volevano.

I movimenti rivoluzionari e i movimenti religiosi hanno sempre avuto tendenza a generare una sorta di divisione del lavoro sul piano della morale. Esigenze non realistiche, quasi terroriste, intimidiscono le masse al punto che adorano i loro propagatori più di quanto si ispirano a loro, e che lasciano volentieri un impegno totale a quelli che hanno le qualità e la devozione apparentemente necessarie per fare ciò. Il rivoluzionario deve sforzarsi di demistificare l’apparente qualità straordinaria evidente dei meriti che può avere, guardandosi dal sentirsi o sembrare superiore a causa di una modestia manifesta. Non deve essere più ammirevole che esemplare.

La critica radicale permanente è stata un fattore chiave nel potere sovversivo dei situazionisti; ma il loro egoismo gli ha impedito di condurre questa tattica fino alla fine. Immerso in tutto questo sproloquio a proposito di “soggettività radicale” e di “padroni senza schiavi”, il situazionista non impara ad essere autocritico. Si concentra esclusivamente sugli errori degli altri, e la facilità con cui assume questo metodo difensivo rafforza il suo ruolo “tranquillo”. Ricevendo di mala grazia le critiche, mutila la sua attività; e quando finalmente una critica lo raggiunge a causa delle sue conseguenze pratiche, può essere traumatizzato al punto di abbandonare ogni attività rivoluzionaria, non conservando della sua esperienza che il rancore contro quelli che lo hanno criticato.

Per contrasto, il rivoluzionario che accetta volentieri la critica ha una più grande flessibilità tattica. Confrontandosi con una critica che gli è fatta, può servirsi “offensivamente” dei punti deboli di questa critica, confutandola dimostrando le sue contraddizioni e i suoi assunti nascosti. Oppure può prendere un atteggiamento di “non resistenza” e servirsi degli aspetti più forti di questa critica come punto di partenza, trasformandola e accettandola in un contesto più profondo di quello che pretendeva di avere. Anche se ha ragione in proporzione schiacciante, può scegliere di concentrarsi su errori abbastanza sottili da parte sua, anziché rifriggere quelli più evidenti degli altri. Non critica ciò che c’è di più criticabile ma ciò che c’è di più essenziale. Si serve di sé stesso come di un mezzo per affrontare questioni più generali. Mettendosi da sé in imbarazzo, imbarazza gli altri. Più un errore è esposto concretamente e radicalmente, più è difficile per gli altri evitare di mettersi in causa da sé stessi. Anche coloro che si rallegrano dell’apparente caduta di un nemico in qualche sorta di esibizionismo masochista, si rendono rapidamente conto che la loro vittoria è inutile. Sacrificando la sua immagine, il rivoluzionario mina l’immagine degli altri, sia smarcherandoli sia svergognandoli. La sua strategia differisce da quella che consiste “nel sovvertire il nemico con l’amore”, non necessariamente avendo meno amore, ma avendo più coerenza nella sua espressione. Può essere crudele riguardo ad un ruolo o ad un’ideologia, pur amando la persona che ne è prigioniera. Se induce della gente a mettersi in causa in modo profondo, forse anche traumatico, gli importa poco che pensino momentaneamente che sia un tipo sporco che non agisce se non per malizia. Desidera spingere gli altri a partecipare, anche trascinandoli in una polemica pubblica contro di lui.

Abbiamo bisogno di sviluppare un nuovo stile, uno stile che conservi l’incisività dei situazionisti ma con una magnanimità ed una umiltà che lascino da parte i loro egoismi ed i loro intrighi senza interesse. La meschineria è sempre controrivoluzionaria. Comincia da te stesso, compagno, ma non fermarti lì.


Appendice

Communalism: From Its Origins to the Twentieth Century [Comunalismo: Dalle sue origini al Ventesimo secolo] di Kenneth Rexroth (Seabury, 1974) contiene un’esposizione vigorosa delle vie per cui la dialettica della religione ha continuamente generato tendenze che sono state delle spine al piede della società dominante e dell’ortodossia religiosa, particolarmente nelle forme dei movimenti millenaristi e delle comunità utopistiche. Sebbene lo stile aneddotico di Rexroth serva spesso ad illustrare in modo conciso un aspetto, una gran parte del suo gossip in merito alle manie e delle illusioni dei comunalisti, anche se divertente, offusca questioni essenziali che non ha esaminato con abbastanza rigore. Considera i movimenti comunalisti in gran parte nei loro termini — la natura della loro vita comunitaria, le trappole che hanno incontrato, per quanto tempo sono durati. Gli importa più di sapere se la società dominante è riuscita a distruggerli, che di sapere se sono riusciti a far breccia. Ed in effetti, nei casi in cui ebbero un certo effetto sovversivo, ciò fu soltanto accidentale. Molte correnti religiose che esercitarono una forza più coscientemente radicale nelle lotte sociali, come il gandhismo o i quaccheri nel movimento antischiavista, non assunsero ovviamente una forma comunalista, e dunque non sono trattate nel suo lavoro.

Nel periodo che segue la sconfitta del primo attacco proletario, quando la maggior parte degli intellettuali si degradò nello stalinismo, nella reazione o nell’ignoranza storica intenzionale, Rexroth fu uno dei pochi a mantenere una certa integrità ed intelligenza. Continuò a denunciare il sistema a partire da una prospettiva che era profonda anche se non rivoluzionaria in modo coerente. Nella “sinistra” della cultura, criticò molti aspetti della separazione tra la cultura e la vita quotidiana, ma senza proseguire fino alla conclusione più radicale: attaccare la separazione come tale, esplicitamente ed in modo coerente. Poiché la società reprime la creatività, immagina “l’atto creatore” come il mezzo di una sovversione sottile della società per mezzo del qualitativo; ma concepisce in gran parte quest’espressione creativa in termini artistici, culturali (“Scrivo poesia per sedurre le donne e rovesciare il sistema capitalista”).

Rexroth ha certamente esercitato un’influenza determinante su numerose persone — anch’io, tra gli altri. Ma quest’influenza, sebbene salutare per molti riguardi, purtroppo non ha condotto ad una teoria-pratica rivoluzionaria abbastanza lucida. Non ha saputo riconoscere molte delle caratteristiche e delle espressioni della rivoluzione moderna, assimilandole troppo rapidamente al fallimento del vecchio attacco proletario. Come non riesce a vedere la possibilità di una rivoluzione, le sue analisi sociali contengono descrizioni lucide quanto pietose proteste liberali. Ripiomba nella nozione di una “società alternativa” composta da individui che praticano con discrezione una comunità autentica negli interstizi della società condannata; secondo la tesi che, anche se ci sono poche possibilità di evitare una apocalisse termonucleare o ecologica, questo è il modo più soddisfacente per condurre la propria vita mentre si aspetta. La proliferazione di individui che conservano valori radicalmente diversi è un rifiuto pratico dell’ideologia mercantile, una critica viva dell’effetto di spettacolo. È una delle basi possibili della rivoluzione moderna. Ma questi individui devono cogliere le mediazioni storiche attraverso le quali questi valori potrebbero essere realizzati. Senza di ciò, tendono a ricadere in una volgare compiacenza riguardo alla loro superiorità verso coloro che non hanno compiuto tale rottura, e si inorgogliscono di una loro inconciliabilità con il sistema proprio quando si integrano.

Raccomando particolarmente il saggio di Rexroth su Martin Buber in Bird in the Bush (New Directions, 1959).

KEN KNABB
Marzo 1977

 


Versione italiana di The Realization and Suppression of Religion, traduzione dall’inglese di Omar Wisyam.

No copyright.


[Corrispondenza sulla questione della religione]

[Due saggi critici sul buddismo impegnato]

[Altri testi in Italiano]

 

   


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